Articolo scritto da Virgilio Scapin nel gennaio 1990 per il primo numero della rivista. Scapin oggi non è più. Rimane, nascosto in pochi perduti numeri di quella rivista, questo suo ricordo amorevole.
Il nome di Corso Palladio
Dedicato nell’Ottocento a Re Umberto, durante l’ultima guerra [‘ultima’ nel 1990, ndr] a Ettore Muti, dal 1945 a Palladio, il Corso di Vicenza deve il suo nome alla frenetica gara di purosangue che avveniva dopo le processioni del Corpus Domini.
La Rua
Un tempo era trascinata per il Corso, nel giorno del Corpus Domini, una strana e ondeggiante macchina lignea, a forma di piramide. Alta fino a 30 metri nelle edizioni più ardite. Guarnita di drappi, stendardi, bandiere. Ornata di statue pinnacoli, stemmi, scudi, scalinate, giostre.
Abitata da figuranti in costume. Sulla cui cima svettava una Rua (ruota), emblema della fraglia dei nodari, che se ne accollava le spese.
La Rua apparve all’inizio in coda alla processione eucaristica, in segno di devozione e referenza della fraglia.
Con l’andar del tempo la Rua e il suo seguito vociante e impertinente vennero disgiunti dalla processione sacra perchè nel nome della torre lignea, passata da simbolo notarile a simbolo della città, esplodeva una intensa festa popolare che si riappropriava paganamente delle vie della città. E questa riappropriazione fu a volte così intensa da preoccupare le autorità civili. Tanto da costringere ad emanare editti, mettere freni.
Curiosità su Corso Palladio
Cesare Cantù nel 1847, un anno dopo aver vista la Rua trascinata, scrive che essa “s’avvia pel Corso, la più elegante via d’Europa, se non si conti per tale il Canal Grande dell’incomparabile Venezia: potendo dirsi una continuità di palazzi, dalla piazza del Castello fino a quella dell’Isola”.
“La più elegante via d’Europa”, forse nelle parole di Cantù si cela un pizzico di piaggeria, ben sapendo l’illustre storico e romanziere quale alta considerazione i vicentini di allora, avessero di se stessi. La via altro non era che la principale strada di Vicenza. Segmento della ‘grande strada’ che da Milano portava a Venezia.
È l’antico decumano, un tempo chiamata Strada Major, contrà di Strà Grande, Strà al Corso, o solamente Strà.
La definizione di Corso
Questa denominazione di Corso pare gli fosse attribuita per la consuetudine di far passare per questa strada un’antica corsa di cavalli (Pallio) sempre dopo la processione del Corpus Domini; ad incrementare forse quello spirito paganeggiante di cui sopra.
I cavalli senza cavalieri passavano di gran corsa, pungolati e trafitti da sfere accuminate e attaccate alla coda. Che battevano selvaggiamente sui posteriori sanguinanti.
Poi le corse si ingentilirono e a correre furono solo le eleganti carrozze dei nobili, e quelle di piazza.
All’indomani dell’annessione del Veneto all’Italia, con tempestiva delibera comunale del 29 luglio 1866, la strada fu intitolata Corso Principe Umberto.
Durante la seconda guerra mondiale cambiò nome in quello di Ettore Muti.
Dal 5 giugno 1945 si chiama gloriosamente Corso Andrea Palladio.
Goethe a Vicenza
Alcuni decenni prima di Cantù, Goethe, in viaggio per l’Italia e di passaggio per Vicenza, non è colpito dall’eleganza e dalla bellezza del Corso. Le osservazioni dell’illustrissimo scrittore sono rivolte altrove:
“A favore dei vicentini c’è da dire soprattutto che, frequentandoli, si godono i privilegi di una grande città. Non badano a nessuno. Ognuno può fare ciò che vuole ma, se li si interpella, si mostrano loquaci e affabili, e particolarmente piacenti sono le donne. Non voglio sparlare delle veronesi: sono ben conformate e hanno un profilo deciso, ma le ho trovate per lo più pallide di colorito. E lo zendale nuoce al loro aspetto, poichè sotto un bel costume si vorrebbe pur cercare alcunchè di seducente. Quì invece trovo graziosissime creature, segnatamente un tipo bruno e ricciuto che mi attrae in modo speciale. C’è anche un tipo biondo, che però non mi va altrettanto a genio.”
Goethe di fermò a Vicenza dal 19 al 26 settembre del 1786 preso, oltre che dalle brune ricciute, dalle visite all’Olimpico, dalle discussioni degli accademici, dagli edifizi del Palladio, dagli spettacoli all’Eretenio, dalle visite al botanico dottor Turra, all’architetto Scamozzi, alla Rotonda, a Thiene.
Non sappiamo quanto durò la visita del Cantù. Speriamo che si sia almeno fermato un numero sufficiente di giorni per godersi al di fuori della sua piaggeria, quel Corso che non era certamente la via più elegante d’Europa, ma che durante l’Ottocento visse forse un suo periodo aureo. Ebbe una sua spiccata e poliedrica personalità, tanto da meritare numerose denominazioni.
Altre denominazioni
È curioso notare come di tutti questi toponimi, solo tre rinviano a nomi di chiese. Filippini, San Gaetano, Santa Corona. Mentre la fanno da padrone le insegne di caffè, alberghi, locande osterie, noli di carrozze, casini di nobili e di borghesi.
Testimonianza esemplare di come questo Corso fosse strutturato in modo vivace, non estranei forse gli spiriti libertari influenzati dalla Rua, fino a diventare un lungo, composito, luogo di incontro e di ritrovo che addolcisce, almeno per il passato, l’immagine bigotta e codina che la città si tira dietro.
I luoghi di Corso Palladio
Alcuni di questi civilissimi luoghi di ritrovo, parte di queste popolari accademie del pensiero, sono durate fino agli anni del secondo dopoguerra.
Di alcune ho dolcissimi ricordi.
Quante discussioni politico-letterarie, quante serate consumate in accese partite a carte, visite di ubriachi divertenti, tra il via vai dei venditori ambulanti di dolciumi, di caramelli dentro vetrinetteportatili lustre e splendenti come reliquiari, di pere cotte conservate dentro pignatte di rame luccicante.
Posavano la pignatta sul tavolo, la scoperchiavano in una nube calda e profumata, infilzando le pere pattuite con un lungo e robusto stecco. Le adagiavano su un foglietto di carta oleata e gettavano le monete cantanti dentro una compatta scarsella di cuoio appesa alla cintura.
e qualche nostalgia…
Ora gli scudi di ferro con le insegne variopinte sono stati strappati. I profumi delle cucine se ne sono andati in esilio, sono saliti sdegnosi in cielo. Il Corso si è trasformato in un lungo, assurdo e paranoico magazzino di magliette, braghe, felpe, bomber.
Le vetrine, come tanti spettrali acquari, ostentano a mezzaria o sul fondo oggetti simili a pesci colorati e imbalsamati, alghe recise, grumi di mucillagine.
Forse neanche i caffè, le osterie, le locande sono state una ultimissima espressione di civiltà, quanto di meglio l’uomo potesse escogitare. Ma almeno entrandovi, uno poteva scambiare due parole, sentirsi vivo.
Ora viviamo all’interno di mutamenti subdoli. Stiamo inconsciamente cambiando. Diventiamo forse un popolo di indossatori.
[ed era il 1990, ancora non c’era internet con i social, youtube, e gli influencer… ndr]
Non vogliamo togliere a nessuno il gusto dello shopping, della fredda determinazione di imbarcarsi in lunghe e defatiganti camminate alla scoperta di apparenti risparmi, alla ricerca di saldi cialtroni. Ma almeno tentiamo di insinuare negli animi che alcuni valori (anche architettonici) non dovrebbero essere buttati a cuor leggero dietro le spalle.
E se c’è ancora qualche ‘forestiero istruito’ che voglia godersi questo Corso Palladio, lo invitiamo a snobbare il pianterreno dei palazzi, i portoni patrizi avvoliti dalle boutiques, ed avviarsi per il vecchio e glorioso decumano, avvalendosi della toponomastica del secolo scorso, salvi i mutamenti o le mutilazioni dovute a guasti dell’ultima guerra.
Palazzi, Toponomastica, e Personaggi
Corso ai Filippini.
Chi entra in città da porta Castello ha subito davanti, sulla destra, il bel Palazzo Pioveni-Beltrame su disegno dell’architetto Antonio Pizzocaro. Un tempo Hotel de la Ville, ebbe fino a non molto tempo fa il suo pian terreno allietato dal frequentatissimo e un po’ snob bar Italia. Ora è il regno dello shopping.
Di fronte, nel Palazzo Thiene-Bonin-Longare regnano gli industriali della città e provincia, benemeriti per uno straordinario restauro del palazzo. Un tempo fu sede di tumultuosi incontri tra generali francesi e austriaci (1797/1816). Napoleone vi riposò le sue stanche membra.
A proposito di illustri ospiti, possiamo qui anticipare che Garibaldi (bontà sua) non dormì mai in un palazzo lungo Corso Palladio.
Davanti Palazzo Malvezzi, già Bissari, era solita fermarsi la Rua, quasi per uno scalo tecnico. I Bissari infatti, antichi patrocinatori della lignea torre, porgevano dal tetto del palazzo, aiutandosi con una pertica, dolciumi e danari ai facchini e ai figuranti che cantavano a mo’ di ringraziamento:
“Viva la Rua di casa Bissara, maxi la tira e maxi la para”
…bei tempi…
A Palazzo Braghetta-Pagello-Beltrame, è vissuto per alcuni anni un mio amico. Viveva, invidiato, in un angusto quartierino sotto i tetti, cui si accedeva per ardue rampe di scale.
Quando si laureò vi si rinchiuse con la morosa e fece all’amore per una settimana. Fu compito mio portargli dal Palazzo Svardo-Brunialdi, eretto nel 1482 su disegno dell’architetto Antonio Piovene e trasformato poi in albergo, cibi e bevande energetiche.
Questa mia frenetica attività di provvido vivandiere era intervallata da visite alla Chiesa dei Filippini, eretta su disegno dell’architetto Giorgio Massari nel 1730, sull’area dove prima sorgeva un oratorio dei padri gesuiti.
Nella fresca e sacra penombra dell’imponente tempio affidavo a Dio confusamente le sorti del mio amico invidiato, non ricordo bene se per ottenergli continuità e costanza alla foga amorosa o per implorargli un provvido spegnimento.
altri palazzi…
Senza mai allentare la guardia e abbassare gli occhi, il forestiero istruito si fermi ad ammirare il Palazzo Loschi-Zileri-Dal Verme, opera di Ottone Calderari. Questo edificio ha sempre trescato con la politica. In epoca monarchica quando riceveva nei suoi fastosi saloni i vari principi di Savoia di passaggio o in visita per la città.
In epoca repubblicana vi si era allogato il principale e governante partito cittadino e nei gloriosi fasti delle elezioni riversava dalle finestre spalancate dei suoi saloni tripudianti, bollettini di vittoria.
Quando nel 1906, Fedele Lampertico, statista, economista, erudito e oratore insigne stava per morire, il popolo vicentino, scosso dall’imminenza di tanta dipartita corse a stendere uno spesso strato di paglia perchè cavalli e carrozze, passando per Corso Palladio, davanti all’omonimo palazzo, costruito si disegno dell’architetto Fontana, non turbassero il silenzio e la mestizia di quelle ore.
La Banca Nazionale del Lavoro ha sede [nel 1990, ndr] nel Palazzo Capra-Clementi e ha come frontaliero Palazzo Capra-Lampertico su disegno di Ottone Calderari.
Bello il gotico Palazzo di Ercole Thiene, anche se non mette conto visitare la galleria che si diparte dal suo portone.
Il luogo conserva l’antico toponimo del Pozzo Rosso, perchè qui esisteva un autentico pozzo, dal quale era possibile attingere buona acqua, con una bella vera in marmo rosseggiante.
In questo luogo erano resi pubblici i proclami della Deputazione civica. In quelle vicinanze, nel 1809 fu aperta la libreria Galla e da allora il ‘canton de Gala’ è diventato il luogo deputato agli appuntamenti. Anche se ora la libreria si è trasferita, il toponimo, almeno per quelli della mia generazione, è ancora valido.
I cambiamenti di Corso Palladio
Sempre nell’Ottocento, Corso Palladio in quel tratto si chiamava ‘Al caffè Angelini’ e ‘alla Stella d’Oro’.
Ora [1990, ndr] esistono solo banche e ovvi negozi. A pochi passi, il Palazzo Porto-Godi-Piovene, dove nacque Guido Piovene. Dall’altra parte della strada, il Corso all’Azzardo e il Corso al Casòn.
Il caffè all’Azzardo era il ritrovo del bon ton cittadino, con velluti, specchi e camerieri in livrea. Venne chiuso nel 1874.
Corso al Casìn, per la presenza dentro il gotico palazzo Braschi-Brunello, del casino dei Nobili, famosa conservatrice società.
La borghesia ne era drasticamente esclusa, e nel 1805 alcuni di questi borghesi snobbati e respinti, aprirono in piazza del Duomo l’Accademia del Casino Nuovo.
A perpetuare il nome dell’aristocratica accademia, resta oggi la farmacia Al Casino. [1990, ndr]
Il Corso i Nobili, con l’omonimo caffè, era esaltato dall’imponente Palazzo Trissino-Baston-Da Porto eretto nel 1588 e terminato nel 1662 dal Pizzocaro su disegno dello Scamozzi.
Alla fine del Settecento Ottone Calderari ne ristrutturò gli interni. Dal 1901 è sede del Comune.
Nei suoi paraggi, nell’aprile del 1945, annusai l’odore della libertà: aveva il profumo dolciastro delle Lucky-Strike che fumavano i soldati americani, misto all’odore di acciaio caldo e benzina dei loro carri armati, che occupavano tutto Corso Palladio. Con in più, un pizzico di cannella che si sprigionava dalla pelle di un negro enorme, che non mollò mai il dito dal grilletto del suo fucile.
altri corsi…
Corso al Nolo da Contà Porti e del Monte a Contrà Manin. Un tempo vi stazionavano le carrozze di piazza, ora vi impera una banca e tanto shopping. Corso al Cappello per via del Cappello Rosso primo albergo della città sulle cui rovine sorse la Trattoria ai Quattro Pellegrini.
Sullo stesso luogo, l’osteria Al Pavone e l’osteria Alla Spada l’avevano preceduta. Ora, sempre botteghe. Corso San Gaetano, dall’omonima chiesa dedicata a San Gaetano Thiene, progettata dal padovano Girolamo Frigimelica e costruita tra il 1721 e il 1725 sull’area dell’Osteria del Cappello.
In questo tratto di strada terminava la corsa pazza dei cavalli del Palio. È da ammirarsi sommamente il Palazzo Caldogno-Franceschini-Da Schio, detto anche Casa Aurea o Cà d’Oro. È della prima metà del Quattrocento, con facciata in puro gotico, successivamente affrescata e arricchita di capitelli gotici.
Qualche passo per raggiungere il Palazzo Valmarana-Negri-Desalvi eretto nel 1593 su disegno di Vincenzo Scamozzi. Qui fu consumato uno dei più efferati crimini dell’epoca con l’uccisione dell’intera famiglia Valmarana per mano di Galeazzo da Roma, mentre stava pranzando. Gli assassini fuggirono, ma la loro casa fu rasa al suolo. A perpetua memoria fu collocata una Colonna Infame sotto i portici di santa Corona.
Verso la fine di Corso Palladio
Corso Palladio si abbandona ora a una dolce discesa, avendo su un fianco il giardino della chiesa di Santa Corona (di sacre spine) e dall’altro un lungo portico, dove un tempo si vendevano sui banchetti i giocattoli per la festa dell’Epifania. Sopra i portici casa Belli-Sartea. Qui sembra sia vissuto Valerio Belli, principe degli incisori del Cinquecento.
Più avanti casa Perecini-Cremonese, edificio tardogotico.
Di fronte casa Cogollo-Venzo-Baroni, detta del Palladio eretta nel 1565, su disegni che la tradizione gli attribuisce. Goethe la ricorda nel suo Viaggio in Italia, ma il Palladio non vi abitò mai.
Dulcis in fundo, lo straordinario Palazzo Chiericati, unica opera del Palladio a ornare il Corso. Iniziato nel 1551, fu terminato soltanto nella seconda metà del Seicento sotto la direzione dell’architetto Carlo Borella.
Dall’altra parte della strada, contiguo al Corso, il teatro Olimpico. Il nostro forestiero, magari per completare la sua istruzione, potrebbe unirsi a Goethe.
Questa sera assistei a una riunione tenuta dall’Accademia degli Olimpici. Un passatempo degno comunque di lode e che mantiene ancora un po’ di brio e di vita fra la gente. Una gran sala attigua al teatro del Palladio e ben illuminata; presenti il Capitano e una parte della nobiltà, in genere un pubblico colto; molti ecclesiastici, in tutto circa cinquecento persone.
Il tema proposto dal presidente per la seduta odierna era se abbia arrecato più vantaggio alla arti belle più l’invenzione o l’imitazione.
L’idea non era disprezzabile, perchè se ci si attiene all’alternativa presente nella domanda, si può continuare a discutere pro e contro per centinaia di anni.
E i signori accademici si sono avvalsi ampiamente dell’occasione loro offerta, con parecchie dissertazioni in prosa e in versi, di cui non poche encomiabili.
Altro che shopping.
2022
Una delle cose secondo noi più interessanti, nel rileggere questi articoli scritti poco più di trent’anni fa, è notare alcuni cambiamenti sociali, spesso conditi da massicce dosi di ipocrisia travestita da progressismo: oggi non si può più dire ‘negro’. È considerato incivile dalla stessa categoria di persone, cui apparterrebbe oggi l’autore del presente articolo.
Troviamo francamente molto stupido, ritenere le parole, le definizioni, come responsabili di ciò che invece annida nell’animo delle persone. Una persona dal cuore puro potrebbe dire negro senza alcun disprezzo per alcuno; come una persona meschina può dire di colore, con il pensiero carico di razzismo. Sono solo mode, e l’egocentrismo di chi ama sentirsi l’artefice di un effimero ‘cambiamento culturale’. Puttanate.
Apprezziamo la poetica nostalgia dell’autore, ma, non ne condividiamo il sarcasmo: dove nell’Ottocento c’erano dei bei caffè, sostituiti dalle ‘odiose boutiques’, prima ci sarà stato qualcos’altro, cambiato innumerevoli volte nella millenaria storia delle città italiane. Un Fondaco delle biade, o del sale. Prima ancora un maniscalco. E prima ancora un lupanare romano. Tra cento o duecento anni, ci sarà dell’altro al posto delle ‘felpe’: Scapin, oggi, forse criticherebbe Amazon, che stà facendo chiudere botteghe e bottegucce. E allora? La storia dell’umanità procede, sempre.