Portobuffolè, il più piccolo comune della provincia di Treviso
Articolo scritto da Sandro Zanotto nel lontano gennaio 1990 per il primo numero della rivista.
Anche in questo caso, come in altri, non abbiamo trovato informazioni o biografie in rete, su questo autore.
Si può solo apprendere che Zanotto non è più…
Dispiace che nessun sito spenda qualche riga per chi ha scritto dei libri. Essi sono un lascito testamentario per l’umanità. Meriterebbero almeno una memoria d’archivio, per chi rimane.
L’approccio al territorio
Ho trascorso un’intera epoca della mia vita (non tanto lontana, ma che mi sembra remota) ad incontrare il Veneto in barca. Non era tanto un capriccio, quanto l’esigenza di leggere un paesaggio nel modo giusto e fedele. Mi sembra infatti evidente che, essendo tutti i centri veneti nati lungo un corso d’acqua collegato a Venezia, il modo giusto per incontrarli sia quello di arrivarci per acqua, venendo dalla capitale. [Venezia, ndr]
Sono itinerari per cui occorre una piccola imbarcazione a remi con un leggero motore e alcuni compagni di viaggio disposti a far vita dura.
Siccome nel breve tempo trascorso da quell’epoca è venuta la moda dei grossi motoscafi d’altura e dei viaggi veloci per mare, non ho più trovato compagni per i miei viaggi all’interno.
Costretto da quel tempo a girare per il Veneto in automobile, mi sento sempre a disagio quando arrivo in qualche luogo che dovrebbe esser bello.
Mi sembra sempre di entrarci al rovescio, da un ingresso di servizio che attraversi vani angusti e sordidi, rovinandomi tutto l’effetto.
La scoperta di Portobuffolè
Molti di questi itinerari muovevano dalla Litoranea Veneta, la via d’acqua che da Venezia conduce fin quasi a Monfalcone per l’interno.
Da essa si diramano corsi d’acqua che conducono sempre a luoghi che val la pena di vedere, con frequenti sorprese.
Ne ebbi una di affascinante imboccando la Livenza poco prima di Caorle. Dopo innumerevoli anse e ponti levatoi, superati Torre di Mosto, San Stino, e Motta, si arriva al bivio della Livenza col Meduna sulla destra, per arrivare a Pordenone attraverso il Naoncello.
Per malasorte capitai nel giorno di una ‘gommonata’ da Pordenone a Caorle. Cioè una competizione di pessimo gusto in cui orrendo ‘gommoni’ creavano tempeste d’onde e di fastuono puzzolente, nelle dolcissime acque del Naoncello cantate dal Navagero.
Irritatissimi, abbiamo girato allora sulla sinistra, per risalire la Livenza.
Dopo un percorso di pochi chilometri tra interminabili meandri, vedemmo comparire una torre sopra l’argine. Accostammo immediatamente, scoprendo un grosso borgo sulla destra, con resti di antiche fortificazioni.
Ma come mai era stato costruito tanto lontano dal fiume?
Esplorazione
Esplorando accuratamente la zona circostante, si vide un alveo abbandonato della Livenza, coperto d’erba.
Avevano fatto il borgo nel posto giusto, solo che poi era mutato il letto della Livenza.
Seguendo a piedi l’ erbal fiume silente si doveva quindi arrivare a Portobuffolè, come le mie carte fluviali indicavano.
Se un posto si chiama Portobuffolè non può essere infatti che un porto su una bova (antico termine idraulico veneto che indica una data derivazione d’acqua).
Il fiume d’erba ci condusse diritti a un toresin con la porta d’ingresso alla città. Con un ponte di pietra che certo sostituiva uno più antico levatoio.
In giro c’erano dappertutto stemmi, busti, iscrizioni venete, da cui si capiva che era Porta Friuli, sormontata dal classico leone di San Marco a libro aperto.
L’iscrizione però non corrispondeva alle regole.
Certo unico al mondo, questo leone sosteneva un libro con la scritta “Diritti e doveri dell’uomo e del cittadino”.
Evidentemente c’era qualcosa che non quadrava e arrivammo a un’ipotesi solo dopo molte riflessioni tra noi, dato che la guida del Touring Club non cita Portobuffolè.
Dopo il 1797, quando scalpellavano dappertutto i leoni di San Marco in spregio alla Repubblica, anche Portobuffolè ci deve essere stata una municipalità che voleva mettere in città la sua scritta democratica.
Non bene aggiornati sugli eventi, quei giacobini di periferia trovarono naturale iscriverla entro il simbolo più autorevole e qualificato che conoscevano, cioè dentro un leone di San Marco.
L’interno del borgo
Superata la porta, sembrò di entrare in un paese fermato da un incantesimo. Si era arrivati in un centro antico, con architetture che andavano dal Duecento al Settecento, con le strade di ciottoli, in un incredibile silenzio.
Non era però il silenzio di Pompei, la città morta, e neppure era il silenzio delle città in degrado, corrotte dalla perdita di identità.
Qui tutti gli edifici aristocratici e popolari, erano restaurati e tenuti in modo perfetto. Tutto era pulitissimo e ordinato. Con discreti cartelli che indicavano la ‘Casa di Gaia Camino’ o il ‘Monte di Pietà’, dando qualche spiegazione.
Pareva di esser tornati indietro di almeno cinquant’anni e ci si aspettava si proiettasse film muti con Asta Nielsen o Buster Keaton.
Mi tornò alla mente una poesia di Ernesto Calzavara che racconta:
L’uomo viveva a Porto
Altri no ghe viveva
forse da secoli più.
L’omo gaveva un pacheto
che nol verzeva mai.
Cossa fassèveo a Porto?
Lu nol fasseva gnente
e par le strade vode
e par le porte verte
no passava nessun.
Il mistero di quel pacchetto che l’uomo si portava sempre dietro, è il mistero di questi luoghi, di quella parte del Trevigiano che rientra nella diocesi di Ceneda, dalla fosca storia.
I misteri del Veneto però non vengono svelati, perchè Calzavara conclude la sua poesia scrivendo del pacchetto che
Cossa ghe fusse dentro,
nessun ga mai savudo
e dopo tanti ani
nol lo sa gnanca lu.
Inizia la ricerca storica
In cerca di una guida, ci siamo precipitati al Municipio, rifacimento di un antico fontego del sale [fondaco, ndr], che arrivava qui da Venezia per essere smistato in tutto il territorio.
Un gentilissimo impiegato ci informò che i portuensi sono in tutto 708 [nel 1990, ndr] (il più piccolo Comune della provincia di Treviso), di cui 285 abitano nel centro, che il Comune conserva l’archivio completo della Magnifica Comunità di Portobuffolè dal 1509. Che i documenti precedenti sono stati gettati nella Livenza dagli Ungari, e che non c’era una guida moderna di Portobuffolè.
Siccome gli piacevamo, ci trovò ancora una copia dello scritto più recente sul comune, cioè Ricordo di Portobuffolè, scritto da Vittorio Andreatta nel 1903.
Non restava che girare a piedi per le stradine silenziose.
A passeggio, ‘leggendo’ i muri
Quel che si vedeva dava di per sè parecchie indicazioni su un importante emporio commerciale medioevale.
Nella casa di Gioia da Camino vedemmo un divertente affresco con una veduta della città all’epoca antica: non era cambiata molto, anche se mancavano molte delle torri segnate sull’affresco.
L’altra indicazione inaspettata era la presenza di un ghetto.
La guida di Andreatta ci dice che il Duomo stesso era in origine una sinagoga. Le dimensioni dello stesso indicano una comunità ebraica assai numerosa, scacciata con la confisca dei beni nel 1480 con decreto della Repubblica per una fosca storia di un fanciullo cristiano sacrificato in misteriosi riti.
Siccome sul Monte di Pietà un cartello ci mostra la stessa data, questo mistero almeno si spiega.
I bravi mercanti veneziani, per sostituirsi nei commerci degli ebrei, crearono il Monte di Pietà coi beni ebraici, montando tutta la storia per scacciarli.
Il commercio ha sempre avuto regole feroci, anche in tempi apparentemente più civili dei nostri.
Il Monte di Pietà e il Duomo
Il Monte di Pietà è sovrastato da una possente torre romanica alta 28 metri. Ultima superstite delle sette torri che difendevano questa base commerciale avanzata, che mi dicono celi ancora nel sottosuolo un’antica prigione.
Ora sostiene un orologio ed è coronata da un divertentissimo fregio in ferro battuto, mentre il Duomo la usa come campanile.
Il Duomo però (altra anomalia) ha avuto fino al nostro secolo l’iuspatronato comunale. Il fatto inconsueto rivela la presenza di una fiorente comunità autonoma.
Portobuffolè, che nessuno ha ancora studiato [1990, ndr], è stato una Repubblica comunale di tutto rispetto.
Forse è ancora l’eredità culturale della Magnifica Comunità che ha insegnato ai pochi portuensi di oggi, tanto civile rispetto per la loro città. Tanto scrupolo nel tenere in ordine perfetto un porto che non è più sul fiume, per naviganti che non arriveranno mai più.
In una tranquilla osteria, alcuni vecchi si lagnano che le auto non si fermino al loro paese. Che non arrivi neppure una briciola del turismo intenso di queste zone.
Reprimo a stento un “Beati voi!” e ci avviamo al ritorno verso la barca lungo il fiume d’erba.
Villa Giustinian
Dopo Ponte Friuli deviamo però lungo un viale alberato, incontrando l’altra sorpresa di Villa Giustinian.
La stupenda villa conserva le tombe dei membri di quella potente famiglia veneziana dal 1695 al 1887, quando si estinse e i suoi beni per testamento andarono all’Opera Pia Cronici di Venezia.
Forse da quest’epoca cominciò anche per la villa il silenzio tipico di Portobuffolè.
Scrive l’Andreatta del giardino:
Nessuna varietà di animali vi abita, ma solo gli uccelli che fanno il nido fra i rami, modulando i loro gorgheggi senza oggidì timore d’insidie, essendo questo luogo da molti anni disabitato ed abbandonato dai suoi ricchi padroni ♦
2022
Negli anni ’90 andammo a Portobuffolè dopo aver letto questo articolo. Giovani, non apprezzammo molto la dimensione ed il silenzio.
Ci siamo tornati nel 2018. Ed il fascino ci avvolse. Ogni cosa, per ognuno, ha la sua età.
Data la piccolezza del luogo, riteniamo con ragionevole certezza che la ‘tranquilla osteria’ fosse quel che ora (o almeno prima del Covid-19) è un ristorantino: Locanda Vecchia Dogana.
Da una ricerca in rete, si riscontra la triste dicitura ‘Chiuso definitivamente’, come accade spesso oggi, dopo due anni di Pandemia Covid-19.
Auguriamo, che in un prossimo futuro riapra i battenti, perchè Portobuffolè merita una visita, e una sosta in questo accogliente, piccolo, locale.