Un’altra penna illustre, nella schiera di quelle che firmavano gli articoli della nostra rivista, Manlio Cortelazzo, padovano, professore di Dialettologia presso la Facoltà di Lettere della sua città. Nel gennaio del 1990 regalò questa curiosità nella rubrica ‘in dialetto’.
Trattazione sul Mona
I nostri vecchi – quelli, per intenderci, che “stavano sento ani col culo ala piova prima de fare un proverbio” erano più pragmatici degli americani e sui loro statuti elencavano rigorosamente quali parole dovevano essere considerate ingiuriose, sollevando i magistrati da imbarazzanti dilemmi.
È offensivo?
Oggi, invece, o per il loro considerevole aumento o per la loro incostanza semantica, ogni decisione è lasciata al giudice il quale spesso non sa che pesci pigliare.
Se si trattasse di parole di lunga tradizione letteraria, potrebbe anche cercare, avvalendosi della larga documentazione lessicografica disponibile, di ricostruire storia e successivi significati, ma il più delle volte esse provengono dal sottofondo dialettale e sono sempre state ripudiate dai severi compilatori di vocabolari.
Parola all’esperto
Che fare, allora? Non resta che rivolgersi all’esperto, linguista o dialettologo, per sentire il parere.
Il caso più recente è quello di padrino (De Mita contro Montanelli), il più famoso è quello di stronzo (lo scrittore Giuseppe Berto contro la scrittrice Dacia Maraini, che l’aveva così graziosamente definito).
Scambi di gentilezze
Tra questi si collocano gli episodi, che hanno qualcosa in comune, del direttore del giornale umoristico livornese Il Vernacoliere, denunciato per avere scherzosamente proposto l’istituzione di una sovraimposta sulla topa al fine di risanare le finanze dello stato (è stato assolto, anche senza invocare, a sua difesa, l’esistenza nel Cinquecento, a Chio, di un tributo che le vedove dovevano pagare per il sesso inoperoso, l’argomuniatikón) e della vertenza tra un ministro della repubblica e un giornalista, che, in sostanza, gli aveva dato pubblicamente del mona.
Biagi Degan
La vicenda è nota: nell’ottobre dell’85, Enzo Biagi commentava un provvedimento dell’allora ministro della Sanità, il mestrino Costante Degan, che tra l’altro gli ricordava, diceva, alcune deplorevoli espressioni del linguaggio veneto, aggiungendo: «Ma dai: si faccia spiegare da Toni e da Bepi che cosa vuol dire mona».
Di qui l’ira di Degan, che, risentito, ha sporto querela. Al giudice la risposta alla grave questione: mona è epiteto offensivo o no? Non sappiamo se abbia fatto in tempo ad emettere la sua sentenza prima della morte del povero ministro.
I vocabolari dialettali veneti ci offrono, talvolta, a questo proposito, opportune osservazioni.
In letteratura
Il Ninni, nell’Ottocento, dava, sì, di mona la definizione: «Chi ha le facoltà mentali molto ottuse», ma poi aggiungeva: «Colui che crede di essere furbo e invece, a sua insaputa, gli altri se lo giocano come vogliono». Per questo non è esattamente interpretabile (‘stupido’?, ‘ingenuo’?, ‘poveraccio’!) l’esempio di Quarantotti Gambini: «aveva già avuto Lidia, chi sa con chi, quando ha pescato quel mona che l’ha sposata».
E in un recente dizionario etimologico veneto-italiano senza pretese scientifiche, ma attento ai significati correnti, si legge: mona: stupido, ma in senso tutto particolare: “può essere ‘mona’ anche una persona intelligente”.
Nell’uso comune
Fuori dalla cerchia di amici e del dialogo confidenziale non è facile immaginare una situazione, che provochi l’uso determinatamente offensivo della parola, almeno oggi (ma anche nell’Ottocento a mona e siòr mona, detti per ingiuria, si danno, come equivalenti toscani, alcune “parole scherzevoli”), quando, in situazioni tese, si preferisce ricorrere all’italiano.
Significato letterale
Noi possiamo solo formulare alcune considerazioni personali sull’argomento. Intanto, non abbiamo elementi storici per stabilire se la voce, prettamente veneta, che propriamente indica il sesso femminile, abbia avuto originariamente un valore spregiativo.
Sembra di no, sia che la riteniamo di provenienza greca (da muni, il
poetico ‘monte’ di Venere), sia che la facciamo rientrare nei significati figurati di ‘scimmia’ (anticamente mona).
Il passaggio da sesso femminile (o maschile) a stupido è molto frequente e universalmente adottato. Non dà, quindi, problemi. Il vero problema è quello di vedere se, oggi, nella nostra pacifica società veneta, la voce è da ritenersi ingiuriosa.
Parere dell’autore
E qui arriva il nostro modesto parere, valevole per tutti i casi simili: le parole, specie quelle affettive, non hanno rigide tendenze manichee, ma scivolano da un significato all’altro, da una eccezione all’altra, spesso inavvertitamente.
Come per gli equivalenti ebete o stupido, non si può giudicare il valore obiettivo di una frase del tipo: «Tasi ti, mona!», se non ricostruiamo l’ambiente, il momento, l’animus del parlante, il grado di confidenza con l’interlocutore e la circostanza, che l’ha indotto a pronunciare quella frase.
Poveri giudici! Non vorremo trovarci al loro posto e decidere il significato profondo del proverbio di Vittorio Veneto: La lège l’è fata per i mona.
2022
E con Mona si conclude la riproposizione del numero 1 della rivista. Non abbiamo ripreso tutti gli articoli presenti, perchè taluni erano troppo ‘di cronaca’ o comunque non legati al concetto di Veneto da vedere, o delle curiosità.