Nino Agostinetti, fu l’autore dell’articolo che segue: Vecchie Osterie, pubblicato nel numero 1 della rivista, nel gennaio del 1990. Non abbiamo trovato in rete un pagina personale o una scheda, per conoscere chi ci lasciò questa divertente storia delle Osterie.
Osterie nella bibliografia
A consultare i repertori bibliografici che ogni tanto concedono spazio a certi fatti locali, la voce osteria pare incontri qualche fortuna. Si tratta, però, quasi sempre, di vecchi titoli legati alla stagione primo novecento, quando il Barth ha aperto di nuovo un filone di stampo descrittivo che sembrava esaurito. Fatta eccezione, forse, per l’area romana, dove il culto della tavola e del bere ha sempre avuto il potere di stuzzicare la fantasia degli artisti (si pensi a certi monologhi ed alle canzoni di Ettore Petrolini).
Chiuse di domenica
Insomma delle vecchie osterie, vulgus bettole, più nessuno degli scrittori nuovi s’interessa. E questo dato, a prescindere da altre considerazioni, non è rallegrante. In fondo una storia sociale delle nostre campagne, almeno fino agli anni cinquanta, non è completa se si dimentica, senza alcuna irriverenza, il binomio chiesa-osteria, due poli fondamentali della comunità popolare.
Tommaseo, nel suo Dizionario dei sinonimi, moraleggia sul significato di osteria:
Oggi che i ristoranti, i caffè e i buffè… servono al bisogno delle persone più agiate, le altre (le osterie, cioè) alla comodità, e troppo spesso alla corruzione de’ poveri, e di quelli che, non per affetto ma per vizio, cercano la compagnia de poveri.
Oggi, a Padova per esempio, non per affetto né per vizio, si trova la domenica un’osteria aperta; provare per credere, e la cosa francamente sorprende non poco, perché, sempre a Padova, l’osteria come istituzione ha un grande passato.
Osti e Osterie di Padova
Sappiamo la data ufficiale della nascita della Fraglia degli osti padovani: 1384, ma l’anno può essere anticipato di molto. Quando nel 1222 studenti e maestri transfughi da Bologna arrivarono in città e fondarono l’università, il Bò, tra le prime manifestazioni del nuovo insediamento spicca un caloroso saluto degli scolari agli osti patavini.
Il binomio vino-osteria è ricorrente e s’intreccia con le cento storie municipali venete, dalle veneziane osterie della Luna, care ai Cavalieri Templari, o della Campana, il cui proprietario Marin Sanudo tremò – lo racconta lui stesso – nel vederla distrutta in un furioso incendio, e si capisce lo spavento del Sanudo perché si trattava di un’osteria «di la quale trago el viver mio», a quella padovana della Vacca, nei pressi dell’odierno ospedale, famosissima e frequentatissima nel 1500 da studenti, prostitute e soldati.
La stessa toponomastica delle vecchie città ricorda vino e osterie: calle della Malvasia, riva del Vin, piazza del Vino. A Padova, il lato occidentale di Piazza delle Erbe si chiamava Piazza del Vin, mentre l’attuale via Squarcione, sempre in centro, era nota come contrada delle Càneve, nome che non ha bisogno di traduzioni.
Terminologia
Un tempo il vino veniva trasportato con robusti carri trainati in genere da buoi e il carro costituiva un’unità di misura: 1 carro = 10 mastelli, 1 mastello = 9 secchi o 72 bocce, 1 boccia = 4 gotti.
Osteria, cioè luogo dove si poteva bere e mangiare, ed esiste tutta una terminologia che indicava, con sfumature diverse, le varie specializzazioni: taverna, solo per il vino all’ingrosso; càneva, dove era servita l’ombra; bastion, di evidente origine militare; bàcaro, voce apparsa a Venezia dopo il 1866 con l’arrivo degli italiani.
Bàcari
A proposito di “bàcari” e osterie, è interessante leggere una vecchia statistica sulle Corporazioni d’arti e mestieri presenti a Venezia nel 1773, pubblicata più di un secolo fa dal Sagredo.
I “bastioneri” erano 30, anche se le rivendite principali di vino raggiungevano le 52 unità. Tutte avevano però il privilegio di dare quattrini su pegni, e si sa che la sete, soprattutto di vino, è cosa terribile e risolvibile spesso impegnando qualcosa.
I mercanti di vino erano 18, gli osti 155, di cui 20 padroni e 135 salariati e a ben 400 unità giungevano i “Travasadori e Portadori de Vin”.
Altre definizioni
Sempre il Sagredo riporta una gustosa appendice del 1745 sulle “Arti ambulanti che girano a comodo della città di Venezia”. Sono arti pubblicate su un foglio volante esistente all’Archivio di Stato veneziano, molte delle quali sono state poi riprodotte nelle celebri incisioni di Gaetano Zompini.
Accanto, e l’accostamento è fatto senza malizia, ai venditori di “Acqua di Brenta”, cioè d’acqua dolce, ci si può divertire scorrendo il numeroso elenco con i vari “Aquavite”, cioè venditori d’acquavite, “Goti e veri roti”, “boteri”, travasatori di vino più noti come “Vino al quarto”, e così via.
Insegne e nomi
L’insegna, soprattutto in campagna o per mescite temporanee, era la frasca, e a proposito di insegne, c’è da divertirsi a ricordarne alcune. C’è tutta una storia, una tradizione in fatto di nomi di osterie.
Cominciando dai più semplici, nomi propri: Bepi, Toni, Gigia, Amabile, Gelindo, per finire ai soprannomi, qualche volta impietosi ma da intendersi sempre come un dato di fatto, quasi un’anagrafe popolare. Così i vari: ai Tosi, la Vecia, Baffo, Antiche Carampane, al Gobo.
Anche la religione ha la sua parte, una religione sempre in bilico con la mitologia, con l’osteria al Vescovo, ai Frati, Croce d’Oro, Antica Sacrestia, per salire alle Grazie, al Profeta, al Calice d’Oro e finire al Paradiso.
Poi vengono i numeri: dalle goliardiche Osteria N. 1, 2, ecc., al ricorrente numero Tre, con le Tre Spade, Tre Mori, Tre Spiedi, ecc..
Un’altra categoria ben rappresentata è quella degli animali: il Gallo, il Pavone, la Colomba, il Lepre (con l’articolo maschile alla veneta) o la bellissima Gatta Mora.
Poi le Forze Armate: l’Alpino, il Bersagliere, il Granatiere, per finire con lo stupendo Ai Caporali.
I nomi delle osterie venete presentano spesso un fascino strano e misterioso; così, la Fenice, le Tre Balle, il Trombone, la Favorita, i Quattro Veneti, e si potrebbe scrivere pagine e pagine sull’argomento.
Oggi, al posto delle insegne pitturate o di ferro, c’è il neon, brillante, asettico, e qualche volta l’osteria si è nobilitata con un H davanti, Hosteria o Hostaria, un H che spesso camuffa un Fast-food.
I vini nell’Unità d’Italia
Il mondo è cambiato, l’osteria è stata soppiantata da altri luoghi d’incontro. Nel settembre 1910 una statistica ufficiale contava nella sola Venezia 1276 osterie, e nel Veneto, nei primi anni del Novecento, le rivendite – trattorie, osterie e mescite – erano ben 19.185. Evidentemente il detto “El mejo vin xe quelo che se beve fora de casa” aveva un suo fondamento.
Quando poi dopo il ’66 il Veneto fu annesso all’Italia, si verificò un fatto eccezionale. I nostri vecchi bevevano parecchio e “placavano” “la sete col vino nostrano assai poco alcolico.
Poi arrivarono i vini rossi pugliesi, quelli che ben presto crearono un neologismo per identificare l’osteria, il Trani. Ebbene, prima che i nostri si abituassero a bere meno o a tagliare il forte vino pugliese, le sbronze, ed erano sbronze cattive, furono per molto tempo all’ordine del giorno e finale obbligato delle serate in compagnia.
L’osteria era una istituzione maschilista, era vietata alle donne che spesso, poverette, dovevano aspettare fuori della porta il marito, ciòco e cotto dalla sbronza domenicale, per riportarselo a casa.
Insomma l’osteria aveva i suoi lati negativi che erano molti, ma adempiva a una funzione sociale di incontro, in un mondo fermo e non ancora toccato dalla motorizzazione e dalla TV.
Le osterie nelle ordinanze
Un mio amico, il veneziano Giordani Soika, [mancato 7 anni dopo la pubblicazione di questo articolo, ndr] credo abbia una tra le più complete collezioni di stampe e manifesti veneti dalla caduta della Repubblica all’annessione all’Italia. Si potrebbe fare una storia dell’osteria attraverso queste stampe.
1806: la Serenissima è caduta e Napoleone è re d’Italia: “…tutti i Birbi Pittocchi Questuanti e Vagabondi Forastieri dell’uno e dell’altro sesso” assolutamente non devono essere alloggiati da “Locandieri Osti Affittaletti Cameranti”.
1813: arrivarono gli austriaci e “Sua Eccellenza il Generale Comandante” ribadisce il divieto “dei giochi d’azzardo”.
1814: si richiamano bettolieri, caffettieri e con bottegai di rispettare “i giorni festivi… o nel tempo de’ Sacri Officj”.
1828: ci si preoccupa della salute degli avventori poiché “vari funesti avvenimenti… abbero luogo per difetti della conveniente stagnatura dei rami che servono… per la cucinatura”.
1849: infuria la prima guerra d’indipendenza, ma l’I.R. Commissario di Montebelluna continua la sua meritoria opera burocratica, concedendo al “nominato Brassani Domenico” la regolare licenza di osteria;
e l’elenco potrebbe continuare. L’osteria era rumore, con canti, commenti a voce alta, bestemmie, e, quando c’era, qualche fisarmonica alle prese con “Rosamunda” o “Tripoli bel suol d’amore”.
I… locali della locanda
In genere il locale era rimediato, sistemato in un vecchio stanzone magari creato buttando giù qualche muro e comprendeva cucina, cantina e il locale dove si beveva e si mangiava.
L’arredamento era essenziale e sui muri brillavano oleografie. Il bancone era alto in genere sui 120 centimetri, con alle spalle scaffali e vetrine con goti, fiaschi, caraffe, butilioni,
bosse, tavoli rustici e sedie impagliate col caresin palustre, botti alle pareti.
Listini e menù
Il listino prezzi dei vini era segnato sulla tabéla e si andava dalle 4 lire del Manduria o del Rosso Verona alle 3,40 del Rosso Piave. In fondo al listino, le ricercatezze del Rodi, dell’Aleatico, per finire in bellezza col Vermouth.
Su un’altra tabéla l’oste segnava le consumazioni e viene in mente l’incisione ottocentesca di Osvaldo Monti con l’oste che segna col gesso sulla porta dell’osteria Zangrossi, in via Belle Parti in quel di Padova, i debiti degli squattrinati studenti.
Per mangiare non c’era molta scelta: pagnotte, fette di salame, uova sode, cipolline, e, nelle grandi occasioni, trippa e nervetti.
Si beveva, si parlava e si sentiva il brusìo della gente fin sulla strada, si giocava a morra o a carte, scopa, scopone, briscola, terziglio con le trevisane coppe, denari, spade, bastoni e si segnavano i punti su una lavagnetta nera.
Nostalgia finale
Vecchie osterie venete finite, scomparse come tanti ricordi, belli o brutti, di un recente passato; cancellate dalla memoria della gente di oggi che ha sempre più fretta e non deve fermarsi mai.
Finiamo col medico-poeta Lodovico Pastò che, ricordando il Friularo di Bagnoli, declamava: «Ma prima de andar via, bevemo in campagnia, un fiasco de sto vin», e anche se oggi la vecchia osteria veneta è scomparsa, resta pur sempre la possibilità di bere un’ombra in compagnia, come è costume dei Nobilomini di tutti i tempi.